sabato 6 dicembre 2008

Delitto Hina, alcune riflessioni dopo la condanna in appello

La giustizia italiana, attraverso il Tribunale di Brescia, ha confermato la condanna per una padre che ha ucciso la figlia, colpevole di volersi integrare, di voler sognare e rendere concreti i suoi sogni di ragazza di 20 anni, costruirsi una vita libera da condizionamenti religiosi, o meglio di fanatismo religioso e di oscurantismo intellettuale.
Hina aveva diritto ad una futuro come tutte le ragazze e i ragazzi, ma il mondo degli adulti, della famiglia, aveva deciso che il suo comportamento "anticonvenzionale" dovesse essere punito con la pena capitale, che ha eseguito senza concedere attenuanti, spietatamente con lucida fermezza.
Stupisce, per noi che ragioniamo "all'occidentale", sentire il padre affermare che le voleva bene, stride con il nostro modo di pensare l'amore di un padre per la propria figlia.
Se la religione musulmana prevede tali punizioni per chi osa trasgredire, se è consentito ad un padre il diritto di vita e di morte sui suoi figli, (non conosco i fondamenti di questa religione e se questi possono essere le conseguenze,sono allarmata anche dalle semplice conoscenza) allora è la fine del libero arbitrio, dell'autodeterminazione, è la fine del valore della vita umana.
Possiamo considerare Hina la martire della libertà di vivere secondo scelte culturali diverse dalle proprie origini, in una tensione verso l'integrazione fra culture che non deve più finire nel sangue, ma fra i banchi di scuola, con le nuove generazioni di immigrati che a contatto con la cultura del nostro Paese, operino la difficile mediazione fra la cultura d'origine e quelle del Paese che offre ospitalità e opportunità per un futuro che possa diventare migliore per tutti, immigrati, residenti e che non abbia più bisogno di martiri. Come Hina

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