mercoledì 26 novembre 2008

Una voce controcorrente nella sentenza strage di Erba

Da crimeblog.it
Intervista: Felice Manti sulla Strage di Erba "E se fossero innocenti?"
pubblicato: mercoledì 26 novembre 2008 da gabriele ferraresi in: Strage di Erba


Oggi verrà emessa la sentenza di primo grado per la Strage di Erba: abbiamo intervistato Felice Manti, firma de Il Giornale, che insieme ad Edoardo Montolli aveva pubblicato, per i tipi di Aliberti Editore, “Il grande abbaglio”, un volume in cui si sosteneva, carte alla mano, la tesi innocentista. In sintesi: potrebbero non essere stati Olindo e Rosa. A dopo, con altri aggiornamenti.
A breve verrà emessa la sentenza di primo grado sulla Strage di Erba: Andrea Frigerio, figlio di Mario il sopravvissuto, si è dichiarato “Certo della colpevolezza” di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Che idea ti sei fatto del dibattimento? Secondo te in che maniera è stato condotto, almeno in questa sua prima fase?

A fasi alterne. A volte la Corte sembrava prevenuta, altre volte molto disponibile. Ma molti testi della difesa sono stati “tagliati” per “palese suprefluità”, e questo è stato un errore perché alcune deposizioni sarebbero state molto importanti.

Tu ed Edoardo Montolli avete scritto, carte alla mano, un libro: il Grande Abbaglio, edito da Aliberti. Nel volume sostenete una tesi “innocentista” riguardo alla strage: una tesi che però sembra smentita, più che dalle sentenze dei giudici, da una specie di giuria mediatico-popolare, che ha già deciso, come in un televoto, la colpevolezza di Olindo e Rosa. Che idea ti sei fatto dell’atteggiamento dei mass media nei confronti della strage di Erba?

Li hanno sbattuti in prima pagina come dei mostri sin da subito. Stesso errore fatto per Azouz, e ultimamente per Lumumba, l’immigrato tirato in causa da Amanda Knox nell’omicidio Meredith. Il vizio d’origine del giornalismo post Tangentopoli, abituato a fare da casella postale dei magistrati e ormai sempre meno abituato al giornalismo d’inchiesta. Quello che abbiamo fatto noi, documentandoci senza alcun pregiudizio e senza avere sentenze in tasca.
Olindo e Rosa, come Annamaria Franzoni, il delitto di Perugia, o Chiara Poggi: secondo te, nella tua esperienza, come mai queste vicende appassionano tanto sia i lettori che chi i giornali li dirige, e decide di puntare su certi argomenti? Chi influenza chi? Sono i lettori a bramare questo genere di storie, o i giornali - e i mass media - a dettare l’agenda e tenere desta l’attenzione, facendo appassionare la gente a quelli che diventano in pochi mesi dei feuilleton di “nera”?
Sesso, sangue, soldi. E ci aggiungo merda. La gente questo vuole. Vuole l’orrore per potersi sentire meglio di quel che è, per prendere le distanze da un mondo sempre più violento. Vuole capire fino a che punto un uomo può spingersi, e per soddisfare questa bramosia non bastano ahimé i vari reality esplosi in tutta la loro banalità nelle nostre tv. Che non a caso sono seguitissimi. Oltre a essere tutti politici, arbitri, calciatori e medici siamo anche tutti giudici e giornalisti. Costa poco e rende tanto…
Sempre Andrea Frigerio, ha dichiarato al Corriere di Como:”O (Olindo e Rosa, ndr) sono innocenti, o sono pazzi. Tutte e due le cose, nella stessa arringa, non ci stanno”: anche nei commenti che ho letto in un articolo pubblicato sul IlGiornale.it ho notato che la teoria secondo cui non sarebbero necessariamente i coniugi Romano gli autori della strage, inizia a farsi strada. Puoi spiegarci brevemente la dinamica dei fatti che avete ricostruito ne Il Grande Abbaglio?
Innocenza e perizia psichiatrica sono sullo stesso piano. Hanno confessato perché indotti da una indole fragile, per paura di perdere l’affetto reciproco. Non a caso, in più circostanze, i due hanno detto: non importa se e come ci condannano, l’importante è stare insieme. In quella famosa richiesta delirante di cella matrimoniale c’è un universo di psiche che va esplorato. E che forse è alla base di tutto.
La colpevolezza di Olindo e Rosa è tutta da dimostrare, perché secondo il principio cardine del nostro sistema giuridico i due imputati sono innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Le prove (e dunque non la mostruosa montagna di indizi, come li ha definiti il pm Astori in aula, che non servono a nulla e non bastano a condannare due persone), le prove dicevo sono tre. macchia di sangue sull’auto, confessioni e riconoscimento. La gente ha capito che queste prove non reggono (forse anche grazie a noi…) e spiego perché.
La macchia di sangue è stata trovata 15 giorni dopo la mattanza dai carabinieri di Como. La macchia era talmente piccola che non si è riusciti nemmeno a fotografarla, ma talmente perfetta da contenere il Dna di Mario Frigerio (il superteste) e della moglie Valeria Cherubini. Nonostante la macchina fosse stata esposta, per due settimane, a tutti quegli agenti atmosferici che ne avrebbero dovuto deteriorarne la qualità. Su quella macchia “pesa” un verbale dei carabinieri di Erba. Quello del 12 dicembre, relativo alla prima perquisizione dell’auto dei Romano effettuata dai militari dell’Arma la notte stessa della strage. Il verbale è firmato, tra gli altri, da un agente che noi sappiamo essere stato sui luoghi del massacro poche ore prima, senza aver avuto la possibilità di cambiarsi scarpe o abiti.
Abbiamo ritenuto dunque ragionevole l’ipotesi della contaminazione involontaria delle prove. A questa osservazione sollevata dalla difesa di Olindo e Rosa, in aula, il maresciallo Gallorini (responsabile del comando di Erba) ha così risposto il 18 febbraio scorso, più o meno così: nessuna delle persone che ha firmato il verbale (compreso l’agente in questione, ndr) ha effettuato la perquisizione, che è stata fatta da una persona che non risulta». L’agente in questione si chiama Rochira. La domanda viene posta più volte, e alla fine Gallorini conferma che quel verbale è carta straccia.
Dice testualmente: «Certo. Confermo, se è un atto così e così. A questo proposito, ma è superfluo dirlo, è chiaro che noi non dovevamo farla (la perquisizione, ndr) perché io ero stato nell’appartamento e quindi era stata mia cura anche al Rochira di non fargliela fare, questo è ovvio». Ma Rochira ha firmato, e questo a nostro avviso invalida tutto.
Le confessioni, sebbene siano state fatte rientrare dalla finestra tramite i cavalli di Troia rappresentati dal video di Picozzi o l’intervista a Tavaroli (fatta guardacaso all’allora innocentista Giornale, ma non a me, e agli atti…), sono state ritrattate. Formalmente non valgono. In realtà, è stata la stessa difesa a pretendere che i giurati sentissero e leggessero quelle dichiarazioni di colpevolezza. Perché fanno acqua da tutte le parti (i legali hanno contato, in quella di Olindo, un “non so, non ricordo” ogni 30 secondi…) e non collimano con la perizia dei Ris, illustrata dal pm durante l’udienza preliminare dell’ottobre 2007. Qualche minuto dopo che i due imputati si fossero dichiarati innocenti. Senza dunque conoscerne l’esito.
Perizia che di fatto, vista la totale assenza di macchie di sangue o Dna delle vittime a casa dei coniugi Romano, esclude categoricamente in sé la dinamica post strage descritta dai due. Ovvero il cambio d’abito e la fuga con armi e vestiti sporchi di sangue in auto. È stata questa la molla che ha fatto scattare la nostra curiosità. Soprattutto visto che non c’erano nemmeno tracce di sangue sui vestiti usati DOPO la strage, coi quali si sarebbero addirittura (stando alle confessioni…) presentati dai Carabinieri la notte stessa della strage per le famose “sommarie informazioni”.
Impossibile che la dinamica della strage sia quella riferita dai due. Per diversi motivi. Basati non su illazioni, ragionamenti o idee ma su prove scientifiche. Quelle dei Ris, appunto, che in altri processi sono state decisive per inchiodare i responsabili e che invece stavolta varrebbero meno di due confessioni strampalate. Dove, ad esempio, non si parla nemmeno dell’accelerante usato per appiccare l’incendio.
Sul riconoscimento è stato scritto anche troppo. Sappiamo dalle carte (e l’abbiamo scritto più di un anno fa, in assoluta e totale solitudine…) che Frigerio, appena sveglio dal coma, il 15 dicembre 2006 descrisse un uomo “mai visto prima, di carnagione olivastra, non di qui, più alto di 20 cm, occhi neri, tanti capelli neri corti sulla fronte”. Un’altra persona. Tanto che il pm che allora raccolse la sua disperata testimonianza fece partire la richiesta di un identikit per risalire all’aggressore.
Non disse MAI il nome Olindo, sebbene l’ascolto di un frammento dell’audio in aula abbia dato a molti questa suggestione. La frase “è stato Olindo, al 100%” che uno dei giurati dice di aver sentito nell’Ipod in realtà secondo i periti di accusa, difesa e tribunale (che hanno analizzato l’audio con apparecchiature decisamente più sofisticate) era “per me stavano uscendo, al 100%”. Frase peraltro decisamente più compatibile del riconoscimento di Olindo rispetto al resto della narrazione.
Riconoscimento di cui nel verbale dell’interrogatorio non c’è traccia. Così come non ce n’è traccia nel fax che il giorno dopo l’interrogatorio al pm l’avvocato di Frigerio Manuel Gabrielli manderà ai pm dicendo che il “suo assistito comincia a ricordarsi il volto”. Solo il 20, dopo diverse domande del maresciallo dei carabinieri sull’eventuale coinvolgimento di Olindo nella strage, Frigerio dirà di avere dei dubbi. E ancora il 26 dicembre Frigerio dirà Ottolino, non Olindo. Il riconoscimento vero e proprio avviene solo il 2 gennaio, dopo il ritrovamento della macchia di sangue sull’auto dei Romano (trovata il 26 ma verbalizzata il 28).
A questi elementi va aggiunto che alcune ipotesi alternative a nostro avviso sono state troppo frettolosamente scartate. Non da ultima quella che secondo i Ris è la dinamica della morte di Valeria Cherubini, l’ultima vittima della strage, ancora viva all’arrivo dei soccorritori. Secondo quanto ha affermato in aula il colonnello dei Ris Luciano Garofano alcune macchie sulla tenda davanti alla finestra dell’appartamento Frigerio-Cherubini, dove la donna è stata trovata morta, in posizione supina con le mani quasi a protezione del capo, sono da schizzo. Teoria confermata dal professor Torre (che diverse volte ha lavorato con successo per le principali Procure d’Italia e che a Erba è stato definito dal pm Astori un prestigiatore…) e dalla primissima relazione (poi modificata dopo le confessioni) del dottor Scola, l’anatomopatologo al quale i pm affidarono le autopsie, che stabilì come causa del decesso il trauma cranico. Circostanza irrobustita dalle diverse ferite al capo (8-9 delle quali 5 o 6 inferte con linee parallele da un corpo contundente - secondo Torre incompatibile con la stanghetta rotonda descritta da Olindo - e dunque a persona immobile…) che la vittima ha subito, insieme a diverse coltellate. In tutto, tra ferite da taglio e da spranga, 42 colpi
Secondo il pm, invece, la donna sarebbe stata colpita sulle scale (come dicono Olindo e Rosa) e si sarebbe alzata nonostante i colpi al capo, avrebbe raggiunto casa sua senza lasciare se non poche gocce di sangue sulle scale e sarebbe morta contemporaneamente di asfissia, dissanguamento e trauma cranico (dice Scola). Senza però inghiottire nemmeno una gocca del suo sangue. Non regge.
Anche perché lunedì è emerso che la donna poteva essere ancora viva alle 20.16, pochi minuti prima delle 20.20, orario ultimo fissato dal pm come momento del decesso. A dirlo sarebbe un testimone oculare anonimo, un avvocato che il 16 dicembre 2006 si sarebbe rammaricato con un altrettanto anonimo giornalista della Provincia di Como di “non essersi fermato più a lungo a parlare con la donna”.
Ebbene, se così fosse, l’impianto accusatorio cadrebbe inesorabilmente. Perché Olindo e Rosa non diranno MAI di essere saliti al piano di sopra per finire la Cherubini. Perché questo limiterebbe la finestra temporale a disposizione dei due per tornare a casa, cambiarsi senza lasciare traccia e uscire dal portoncino senza essere visti dai soccorritori, che già alle 20.23 erano dentro la palazzina.
Perché siccome la vittima era ancora viva in quei primissimi minuti dopo le 20.20, come sostengono in aula le due persone entrate per prime nella palazzina, gli aggressori sarebbero dovuti essere ancora dentro la palazzina all’arrivo dei soccorritori.
Se così fosse, da dove sarebbero dovuti uscire? Noi abbiamo ipotizzato un’uscita da una finestra che da su via Diaz, lontano dal cortile già pieno di curiosi, carabinieri e vigili del fuoco, mentre la difesa punta sul balconcino di casa Castagna, dove è stato trovato del sangue il cui Dna non apparterrebbe né alle vittime né ai presunti aggressori e dove ci sono tracce di sangue calpestato.
Un’ipotesi rinforzata da alcune tracce da spruzzo di sangue della Cherubini trovate dai Ris dentro casa Castagna, a 20 cm da terra, che gli aggressori potrebbero aver lasciato strisciando via dopo aver ucciso la donna protetti dalla coltre di fumo che ha impedito agli aggressori di soccorrere la Cherubini. Da un’impronta di scarpa sporca di sangue trovata a casa sua. Da una ciocca di capelli trovata vicino al cadavere.
E confermata, se non bastasse, da due deposizioni ai carabinieri, dove si riferisce di un gruppo di tre persone (due extracomunitari e un italiano) visti in quei paraggi all’ora del delitto. E sui quali, come sai, non si è indagato a sufficienza.
Gli aggressori, peraltro, stando alla testimonianza di un vicino di casa (che va verificata con un esperimento - chiesto dalla difesa e sul quale si pronuncierà la corte, forse mercoledì…), potevano essere già in casa prima dell’inizio della strage, iniziata alle 8. Il vicino di casa siriano riferisce infatti di aver sentito dei passi “furtivi e rapidi” a casa Castagna già alle 18.30. Orario compatibile con una circostanza bizzarra. La luce a casa Castagna è stata staccata, secondo l’Enel, alle 17.40-17.45. Più di due ore prima la strage. Olindo e Rosa, nelle famose confessioni, si rimpalleranno la paternità del black out fissandolo prima nei minuti immediatamente precedenti la strage, poi nell’orario indicato loro dai pm. Tra un “non saprei”, un “non ricordo” e un “metta ciò che vuole”. Tu chiamale, se vuoi, confessioni.
Ultima domanda: i tempi della giustizia. Per arrivare al primo grado, la Strage di Erba ha impiegato in pratica un paio d’anni, visto che risale al 1° dicembre 2006: ti sembra un arco temporale giusto per un primo grado? Normalmente i tempi in cui si arriva al primo grado di giudizio, per delitti analoghi, sono simili?

È più importante una sentenza giusta di una sentenza frettolosa. Se Olindo e Rosa non avessero cambiato avvocato, probabilmente il loro destino era segnato: rito abbreviato, condanna a 30 anni e addio. Oggi, anche grazie al lavoro dei nuovi legali, hanno concrete possibilità che la loro estraneità ai fatti venga ampiamente dimostrata, se non subito certamente in appello. Ci voglia il tempo che serve. In Italia, purtroppo, ci dobbiamo accontentare.

Nessun commento: